Nell'ambito della rassegna "Il cielo su Torino", Roberto Zibetti presenta al Teatro Gobetti il suo personale omaggio (anche musicale) al celebre poema epico di Torquato Tasso. In questa intervista, l'attore parla delle sue ultime esperienze teatrali e anche dei suoi ruoli tra cinema e tv, anticipando il ritorno sulle scene di "Lehman Trilogy".
Nato negli Stati Uniti da genitori italiani, Roberto Zibetti è cresciuto a Torino. Debutta in teatro nel 1990 con Luca Ronconi, che lo dirige ne ‘Gli ultimi giorni dell’umanità’.i due si sono ritrovati, a 25 anni di distanza, per condividere l’ultima “fatica” sul palcoscenico del grande regista, 'Lehman Trilogy'; è molto attivo anche nel cinema (Io ballo da sola, Radiofreccia, Non ho sonno) e in televisione (Distretto di Polizia, Le stagioni del cuore, La donna della domenica). Lo abbiamo raggiunto in una breve pausa del montaggio dello spettacolo in scena giovedì 14 e venerdì 15 gennaio al Teatro Gobetti: 'La Gerusalemme liberata' rivive attraverso note, voci e parole, perché ‘l’epica non smette di parlarci, ancora oggi, dell’essenza della vita’.
Un titolo che mette in soggezione – esordisce Zibetti – non so perché, ma come tutto ciò che appartiene specificamente ai programmi scolastici, finisce per essere sepolto sotto una retorica abbastanza polverosa e viene vissuto come qualcosa di faticoso. E’ come La corazzata Potëmkin per Fantozzi. Per quanto mi riguarda è veramente un’epifania, una scoperta. Avevo già riscoperto Tasso una ventina di anni fa, lavorando nell’Aminta con Luca Ronconi. Questa, invece, è la storia dei crociati in Medio Oriente ed è di un’attualità sconcertante, perché racconta la fase finale dell’assedio di Gerusalemme, partendo dalla Siria. Sembra di leggere le cronache di oggi e invece il poema è stato scritto nel 1570, in piena Controriforma – peraltro facendo finta di obbedire ai dogmi molto rigidi di quel periodo ma in realtà facendosene beffe con grande ironia.
Chi l’accompagna in questo viaggio sulla scena?
C’è qualcosa di “sbagliato” nell’idea che in scena ci sia solo un attore. Con me ci sono un musicista, Giorgio Mirto, alla chitarra, e le voci dei fratelli Celeste e Placido Gugliandolo, ovvero I Moderni, cantanti di musica a cappella, che sono arrivati in finale a X-Factor 5. Viene utilizzata anche una macchina per i suoni elettronici. Le canzoni contengono ritmi mediterranei (sonorità greche e arabe). D’altronde, la musica dell’epoca era quella dei musici-cantori che giravano le corti accompagnandosi con il proprio strumento.
Lei ha lavorato spesso in produzioni che prevedevano la presenza di molti attori in scena, non ultima Lehman Trilogy…
Come no! Anche nel prossimo spettacolo di Mario Martone, La morte di Danton, cui prenderò parte, saremo più di 30. Io sono da un lato un grande fan della coralità, ritengo che sia il vero valore aggiunto oggi. Una coralità di intenti, che si ispira al collettivo anni Settanta, ma che io chiamo “modulare”, un raggruppamento di realtà autonome (attori o imprese produttive).
Tuttavia, la coralità non si crea dal nulla, non può essere un concetto astratto, e in questi giorni sto notando che i musicisti hanno una grammatica più rigorosa degli attori e la musica, anche a livelli elementari, è soprattutto un fatto scientifico. Tant’è che sia i musicisti che i tecnici, sono vestiti anche loro “a tema”, come predoni arabi: ognuno è una faccia diversa del Poeta.
Il regalo più bello che ho ricevuto nella mia carriera è stato quello di venire richiamato da Luca Ronconi per fare Lehman Trilogy: lavorare con lui significava fare grandi sforzi, ma comunque capire le cose circa due anni dopo che te le aveva dette, perché necessitavano del giusto tempo di maturazione. Riprenderemo lo spettacolo a Milano e arriveremo anche a Roma e Torino, al Teatro Carignano, il prossimo autunno.
Per lei è stata un’esperienza molto soddisfacente…
Quando ero giovane mi dicevano che per diventare un attore ci sarebbero voluti 20 anni e io non ci credevo; ho debuttato con Ronconi nel 1990 ne Gli ultimi giorni dell’umanità ed è stato solo dopo la “prima” di Lehman Trilogy – perché nei 50 giorni di allestimenti lui mi ha fatto un “mazzo” di livello – che mi sono sentito vagamente “in titolo” per definirmi un attore, dopo circa 25 anni.
Parlando di cinema, lei ha quasi sempre interpretato personaggi che fanno da “chiave (anche) risolutiva delle vicende rappresentate, nel bene e nel male. E’ soddisfatto di questo tipo di percorso cinematografico?
Inizio adesso ad avere consapevolezza, nonostante le esperienze avute con registi come Bernardo Bertolucci, Dario Argento, Marco Tullio Giordana. Il primo, vero personaggio che io riconosco come tale, cioè fatto con consapevolezza, è Carlo in Pasolini, di Abel Ferrara: è un cameo muto, ma è qualcosa di riuscito. Questa cosa che mi fanno sempre fare il “cattivo” la trovo buffa. A me i caratteri piacciono e spero prima o poi di divertirmi a fare una commedia. Certo, bisognerebbe che fosse scritta in una certa maniera. Aspetto che arrivi il ruolo giusto.